A cura del Prof. Antonio Carradore – novembre 2010
Domenico Scolaro ieri, oggi e domani. Tra maschera e presenza
[…] gli si può riconoscere l’urgenza sincera di comunicare certe sue idee di fraterna solidarietà per la comune condizione umana; il valore della esistenza; l’impegno morale e sociale legato alla vita; una sua concezione del dolore, come incentivo per un arricchimento interiore”.
Si potrebbe partire ancora una volta dalle sentite e illuminanti parole di Salvatore Maugeri per parlare di Domenico Scolaro, un uomo e un artista che – a detta dello stesso – è diventato tale anche per il sostegno del compianto critico d’arte, tutt’ ora ricordato da Scolaro quale maestro, in tutti i sensi. Cosa si deve aggiungere ancora oggi, dopo ulteriori aggiornamenti stilistici e non poche soddisfazioni, nel tentativo di inquadrare la produzione di un artista giunto al culmine della sua maturità? Gioverebbe forse reinterogarsi sull’ esperienza umana di Scolaro, inscindibile dall’ attività di un arzignanese nel profondo, di cuore sanbortolano ma montorsano d’adozione. Per provarlo basta lasciarlo parlare, scrutarne gli occhi o intuirne gesti e movimenti mentre si accende di fervore nell’illustrare ciò che lo spinge a produrre arte e, in fondo, poesia. Da qui si comprendono la misura, la disciplina, ma anche la laboriosità e l’impegno pronti a mutare in interesse per ciò che lo circonda, vicino o lontano che sia. Come la capacità di farsi trasportare da una sana lettura o la carica emotiva che Scolaro libera anche a seguito dei fatti di cronaca percepiti, segnandone pure talune scelte di vita che man mano trovano puntuale riscontro nelle opere.
Pensiamo, fra le altre, alle intense esperienze come volontario – nell’ ambito del servizio civile – in Madagascar e in Rwanda, maturate a distanza di tempo dai suoi esordi pittorici ufficiali e risultate come necessarie per intendere e mettere in pratica la possibilità della convivenza e della tolleranza tra popoli e fedi apparentemente diverse. Da allora ecco approfondirsi la ricerca di sacro e divino insiti nelle forme geometriche, con particolare predilezione per l’intrecciarsi (anche simbolico) dei triangoli nella stella di David, che si avvia ad enuclearsi tra le summae della sua poetica, apparentemente permeata di cupo pessimismo ma ogni volta pronta a riscattarsi con le armi della speranza e dell’umiltà, imbracciate dallo stesso sovrano ebraico dell’Antico Testamento. Sembrano addirittura materializzarsi – fatte proprie con un linguaggio quanto mai personale – nel loro aleggiare diafane, leggere, evocative quanto basta (come i colori che Scolaro, quasi sommessamente, stende su certi suoi dipinti) le parole di Buddha: “vi condurrò al dolore, all’ origine del dolore, alla sua estinzione e alla via che conduce alla sua estinzione”.
La via.
Quella di Scolaro prosegue veicolata dall’ occhio, insistente quanto ambigua presenza fra le sue creature, con valenza drammatica, grottesca o surreale ma tesa – paradossalmente – ad abolire il solo visivo a favore dell’interiorità. Con ciò – e non è di poco conto – trovandosi completamente dentro la contemporaneità. Ma tale apparente incomunicabilità – espressiva ed enigmatica quanto basta – è voluta e ricercata dall’ artista, poiché, usando le sue stesse parole, spetta all’ osservante “completare l’opera seguendo i suggerimenti del cuore”, mediatore “fra il cervello e le mani”, come recita la frase chiave su cui ruota tutto il senso dello straordinario Metropolis di Fritz Lang.
E’ a partire da questo che Scolaro realizza corpi e braccia, intuiti e filiformi, che si tendono in abbracci mancati ma sempre più spesso effettivamente realizzati entro il valore utopico maggiormente sentito dallo stesso Scolaro, quello della famiglia, capace sempre di tradursi in un senso panico, universale. Ciò non gli impedisce tuttavia di continuare nel suo paziente lavoro di sottrazione, quasi a scarnificare corpo e materia, fino all’azzeramento o, parola cara a lui e all’estetica orientale, al “vuoto”.
E qui il nostro discorso si fa delicato, assottigliandosi volutamente fin quasi a nientificarsi.
Negli ultimi lavori si ha come la sensazione che accostarsi ad una creazione di Domenico Scolaro significa in fondo assistere ad una rappresentazione di ciò che resta della nostra identità mancata, allestita in quel palcoscenico a tratti indecifrabile che è la vita. Sigla poetica ne è allora l’incomunicabilità e il silenzio, quasi un teatro dell’assurdo da cui traggono linfa quelle presenze evanescenti, anime laiche mutate in pensieri e azioni mancate che costituiscono le sculture o le installazioni. Strutture, queste, esili, essenziali – esistenziali vien da dire – percorribili al loro interno e il cui contatto fisico può esorcizzare l’insondabile mistero della nostra umanità negata. Ecco quindi portali e incontri falliti, avvolti o creati essi stessi dal vuoto, che trovano il riscatto proprio in questa ideale corda tesa, sospesa e sottile da cui magicamente si possono concretizzare delle maschere e, ancora una volta, degli occhi.
Dietro l’angolo il miracolo è quasi compiuto.
Perché ci torna alla mente come in latino il primo significato del termine persona sia proprio maschera. Quella persona e quella maschera che in francese variano in personne. Che diventa nessuno.
L’occhio di Polifemo fu accecato proprio da Nessuno.
L’occhio delle creature-forme di Scolaro è perennemente scoperto e rifondato dalla nostra voglia di vederci e riscattarci in ogni istante. Assieme all’artista. Assieme alla vita.